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venerdì 28 dicembre 2012

La processione di San Bernardo

(Oliveto IM)

DI ENRICO BERIO (SANREMO)
La processione di San Bernardo

testo di Enrico BERIO(Sanremo)

Mio padre, dopo una brillante laurea in giurisprudenza e un’altrettanto brillante iscrizione all’albo degli avvocati, aveva lasciato, giovane, la terra degli avi per una laboriosa e onorata vita di funzionario statale. Mio nonno Enrico era morto molti anni prima della mia nascita.

Per questo il Moro rappresentava per me l’anello di collegamento con le passate generazioni, di cui ben poco sapevo e so, ma che hanno sempre costituito per me un richiamo fascinoso, come fascinoso mi appare tutto ciò che intuisco, ma che non sono in grado di pienamente conoscere.

Comunque, a parte mio padre, la cui esaltazione potrebbe apparire determinata dalla devozione filiale ( benché sia certo che potrei obiettivamente tesserne le lodi per le unanimi attestazioni di chi lo conosceva o ebbe da fare con lui anche in difficili periodi di emergenza ) , l’avere davanti agli occhi un vecchio così bello, imponente e importante nella piccola comunità paesana, rimasta identica a quella di cinquecento anni prima, era per me come avere dinanzi agli occhi la garanzia di discendere da una buona razza, di gente semplice, ma onesta ed equilibrata.

Il giorno di San Bernardo, sempre il Moro cantava la lode del Patrono nel coro della chiesa e dietro la processione.

Ed era la sua voce baritonale a spandersi armoniosa sopra le poche altre dei suoi coetanei e dei più giovani. Ed era il Moro, che non doveva aver fatto più della quinta elementare, a ridurre al minimo gli errori del latino medioevale che sgorgava dalle gole dei cantori.

La chiesetta del paese, che vedeva in quel giorno raccogliersi attorno al Santo tutti i nativi emigrati da tempo in città, aveva un che di materno, di casalingo.

Ed anche se occhiate furtive sbirciavano attorno durante le litanìe, questo reciproco scrutare rafforzava in me l’idea che proprio quell’incontro annuale mantenesse vivo il vincolo delle famiglie originarie di lassù.

Ogni tanto, tornando al paese per San Bernardo, trovavo un Parroco nuovo, ma il Moro era sempre al suo posto di Priore, con il càmice bianco e la fascia azzurra della Confraternita.

Ricordo quando incominciò ad usare il bastone, quando le gambe si misero a vacillare sotto il peso di quel grande corpo.

Mai volle servirsi delle stampelle, anche se negli ultimi anni era costretto a rimanere sempre in casa e se, dopo la morte di sua moglie, si trascinava carponi per la casa come un bambino di un anno, lasciando dietro di sé una striscia lucida, quando i figlie la nuora non gli erano accanto.

Ma il giorno di San Bernardo il Moro si alzava ancora, solenne, nel camice bianco, anche se due dei suoi tre figli dovevano sostenerlo continuamente sotto le ascelle.

E cantava, con pochissimi errori, che il figlio professore di latino, aveva creduto opportuno non correggergli per un senso di riguardo, sempre con quel suo melodioso tono baritonale che scendeva giù dal declivio del colle, rimbalzando sulle fronzute chiome degli olivi.

Credo però che anch’egli temesse ciò di cui mi accorsi quell’anno, la prima volta che si fece la processione dopo la morte del Moro.

Già da tempo il corteo che seguiva il Santo era ben misera cosa, perché oltre ai due o tre preti che venivano a dare man forte al Parroco, oltre al gruppo dei Confratelli, i più giovani dei quali reggevano il grande Crocifisso tintinnante di leggeri arabeschi e fiori d’argento, e le aste delle alabarde e dei solenni fanali dipinti di azzurro, oltre ai chierichetti raccogliticci che cambiavano ogni anno, c’erano appena un modesto gruppo di donne e una sparuta rappresentanza maschile.

Mi era sempre parso, però, che la processione fosse una cerimonia importante, proprio perché la ieratica figura del Moro, che ne era il vero sacerdote, non consacrato ma consacrante, creava una suggestione che, per me personalmente, aveva il potere di un simbolo magico e per gli altri, comunque, era la manifestazione concreta della dignità, della compostezza, della regalità di un passato ormai quasi spento.

Perché, poi, il vecchio bianco fosse soprannominato il Moro, in un primo tempo non mi era ben chiaro. Ma più tardi, sfogliando gli antichi registri catastali del paese, mi ero reso conto che quel soprannome era già stato attribuito a tutti i suoi antenati fin dall’inizio delle registrazioni fiscali ancora conservate che arrivavano appena alla metà del secolo XVIII°.

Forse, quindi, il primo di questi antenati che aveva ricevuto quel soprannome doveva, evidentemente, avere un colorito molto più scuro.

O, forse, è questa la giustificazione che mi era parsa, quanto meno, la più simpatica e interessante, per l’alone di leggenda che la circondava, per un richiamo diretto alla discendenza da quel tal Mustafà Bey, comandante turco che agli albori del 1400 aveva scelto la libertà fuggendo dalle grinfie del Sultano che gli aveva mandato, in un cofano, un cappio d’argento invitandolo a quel cruento atto di “dimissioni” certamente dovuto a dissapori, qualunque potesse esserne stata la causa.

Mustafà, fuggendo dalle sue contrade, dopo lungo vagabondare sempre inseguito dai “killer” sguinzagliati dietro di lui, aveva finalmente trovato rifugio definitivo, dolce naufragio, nel fitto mare degli uliveti che già allora ricoprivano abbondantemente le nostre colline.

E poiché Mustafà in paese era chiamato semplicemente “il Bey”, cioè “il Capitano”, tanto che ancor oggi la via di accesso alla piazza del paese si intitola “Via del Bey”, si dice che da quell’appellativo sia nato il cognome dei suoi discendenti, i Berio, ch’egli aveva contribuito a rendere assai numerosi “traendo in moglie una bella ragazza del luogo da cui ebbe nove figli maschi” come dice una cronaca locale.

“Il Moro” potrebbe dunque essere il soprannome attribuito proprio ad uno dei suoi nove figli quello, evidentemente, a lui più rassomigliante.

Questo soprannome, vale la pena ricordarlo qui, aveva dato luogo a un curioso equivoco nel 1860 nei giorni precedenti la partenza dei Mille di Garibaldi da Quarto per la loro famosa spedizione.

Equivoco mai finora chiarito se non, a livello familiare, dalle scarne notizie avutene da mio padre che mi aveva raccontato che, quando il Re Carlo Alberto aveva promulgato la Costituzione e in tutto il regno erano esplosi gli entusiasmi generali, Vittorio Emanuele Berio, nato nel 1840 e quindi allora ragazzo di otto anni, per essere parte attiva nel comune gaudio, aveva liberato i conigli dalla gabbia.

E dodici anni dopo, appena ventenne, nel nuovo entusiasmo giovanile per l’unità d’Italia, era scappato da casa per arruolarsi nei garibaldini. E siccome anch’egli era soprannominato “il Moro”, negli addetti alla formazione dell’elenco dei volontari, quel soprannome aveva potuto suscitare,

nell’euforia del momento, un che di “scherzoso” e da moro a negro, anche la provenienza addirittura dall’Angola era stata umoristicamente affibbiata accanto al nome del giovane.

A conferma della compilazione dell’elenco in modo affrettato e sommario, alla…garibaldina, tanto che vi sono parecchi nomi di persone e di paesi di provenienza sbagliati o deformati, stanno le osservazioni in parecchi studi sui Mille

Così nell’elenco ufficiale, pubblicato anche sul “ Nuovissimo Melzi” dell’editore Vallardi, risulta l’indicazione “Berio Emanuele (Angola, Africa)” ma senza l’asterisco che, dice una annotazione, segna i “pensionati”.

Questo piccolo particolare toglie ogni dubbio sulla concordanza tra quanto indicato nell’elenco ed il racconto di mio padre. Infatti Emanuele Berio, detto “il Moro” non era stato pensionato proprio perché, pur essendo iscritto nell’elenco, non era partito per la Sicilia dato che, due giorni prima della partenza, (siamo tornati al racconto di mio padre) i suoi genitori si erano precipitati a Genova e, il padre con le cattive, la madre con i piagnistei, lo avevano obbligato a tornare a casa con loro anche perché, fino a quel momento, figlio unico di famiglia contadina.

Il fatto è che il Bey nel paese c’era venuto, ed è tutta qui la nobiltà del luogo, il cui nome, ancor oggi, Oliveto, è simbolo puramente di faticoso, ancorché abbastanza redditizio, lavoro agricolo, anche se non vi è, implicito, il concetto di gleba e servitù, ma solo quello di dovere e, assieme, di diritti.

Il fatto è che su un muro di un salone che si apriva sotto una delle tante “allées couvertes” di Oliveto, trasformato in deposito degli attrezzi agricoli, c’era un grande affresco del Bey in atteggiamento marziale.

Pare che quel salone fosse stato la sala da pranzo della casa di Mustafà, la cui effige era diventata, col tempo, l’obbiettivo preferito di successivi abitanti che sfogavano insoddisfazione, stanchezza, rancore contro la sorte menando gran colpi di forca sul suo nobile viso.

E, qualcuno, accompagnava l’insulto con una frase dialettale : “ Teh, ti, che ti stai sempre lì au frescu…” ( Tieni, tu che stai sempre al fresco). Ed avevano reso vane più approfondite conoscenzesull’uomo e sull’avvenimento perché, quando era giunta da Parigi una commissione di esperti per decifrare la scritta in arabo che circondava le nobili sembianze del Capitano, nulla assolutamente si era potuto più leggere ed anche l’effige del Bey era man mano sparita, assieme con l’intonaco che si screpolava, fino a quando gli avevano dato il colpo di grazia abbattendo la parete pericolante per ricostruirla più solida.

Forse, da ragazzo, anche il Moro aveva insultato il presunto antenato o forse, nella sua saggezza, aveva rimbrottato gli astiosi, non però in modo duro e violento, ma con frasi e sorrisi ironici, che ben sarebbero stati significativi per gente meno zotica.

Forse quel senso di angoscioso richiamo che esercita su di me il pensiero del passato, mi è stato instillato proprio dagli scarni racconti del Moro, imprecisi e poco documentati, ma per questo più fascinosi, mentre le più circostanziate descrizioni di persone e di episodi uscite dalla bocca di mio padre, hanno reso vivo e quasi attuale, per quei pochi tratti che ho potuto delineare, la presenza dei nonni e di altri parenti mai conosciuti.

O, forse, i racconti del Moro, seppure così vaghi e schematici, si fissarono maggiormente nella mia sfera fantastica proprio perché, come già detto, provenendo da lui, era come se provenissero direttamente da un mondo scomparso.

E fu per questo che quella domenica di fine agosto mi parve che non fosse più la stessa cosa.

Perché non c’era più il Moro e il più giovane dei suoi figli aveva preso il suo posto nel coro. Si vedeva che cercava di imitare il padre, sfogliandone il vecchio Libro consunto, ma il canto non era caldo come quello del vecchio, anche se si leggeva sul suo volto il disperato desiderio di non essere da meno.

In lui c’era una veemenza quasi forzata, non la serafica maestà di un uomo che non aveva mai sentito il desiderio di scendere nella pur vicinissima Città.

Quell’anno i Confratelli non vestivano più la cappa bianca né la fascia azzurra e il Parroco era riuscito stentatamente a raccogliere alcuni giovinotti calabresi della numerosa colonia installatasi nel paese, perché portassero la statua del Santo.

Così ancora una volta San Bernardo era uscito con lo scarno seguito dei paesani, ma quell’anno la bianca immagine del Dottore della Chiesa pareva più piccola e più legnosa che in passato, mentre la grinta del Demonio ai suoi piedi appariva, più di un tempo, viva e pronta a divorare.

E fu per questo che in quella domenica di fine agosto mi parve a un tratto, erroneamente e con animo peccaminoso, che anche la Processione fosse diventata un arcaico rito pagano, la volontaria ripetizione di gesti simbolici con cui gli ultimi delle antiche famiglie volevano imporre la loro presenza, la loro continuità e, per ciò stesso, una sorta di diritto di prelazione sui nuovi venuti che speravano di meglio inserirsi nel ristretto giro della vita del paese.

Dopo la funzione partecipai anch’io al semplice raduno dei promotori, nella Casa Canonica. Si stappò qualche fiasco di vinello e un gran vassoio di paste secche fu svuotato in pochi minuti.

Il giovane Parroco mi accennò all’idea di istituire una seconda festa patronale, quella di San Rocco, caro ai calabresi.

Dapprima il mio insulso istinto di prelazione mi fece stupire e mi sentii dissenziente, ma il Parroco era nel vero, perché il mondo del Moro era finito ancor prima di lui e bisognava cercare la regalità nei cuori che ancora erano in grado di ospitarla.

E una festa patronale vale l’altra, purché sia capace di suscitare sentimenti di fede, di speranza, di carità. Ma il Moro, che era stato semplicemente un umile seppur maestoso cantore della fede, era stato elevato da noi, nella sua statuaria bellezza, a simbolo del nostro egoistico desiderio di essere il centro di interesse di una comunità o, peggio ancora, il vivente mito della passione pagana per il proprio io, sconfinante nel tempo e quasi immortale.

E invece il pensiero di San Rocco, pronto a sconvolgere un secolare rito, mi richiamava alla realtà vera, all’essenza vera del nostro destino di uomini.

Noi, soli, ciascuno, per breve ora e di là DIO, l’IMMENSO

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